giovedì 29 dicembre 2005

 


AIAC NEWS n. 1 (Giugno 1994)


RITROVAMENTO A GUIDONIA DEL GRUPPO SCULTOREO CON LA RAPPRESENTAZIONE DELLA TRIADE CAPITOLINA


Il rinvenimento del gruppo scultoreo con raffigurazione della Triade Capitolina, proveniente dalla tenuta dell'Inviolata nel comune di Guidonia, reso possibile grazie al lungo e rocambolesco lavoro di investigazione, condotto dai Carabinieri del Comando Tutela Patrimonio Artistico, diretto dal Colonnello Roberto Conforti, costituisce se non la più importante, senza dubbio la più sensazionale scoperta avvenuta nel territorio del Lazio negli ultimi anni.
Il gruppo scultoreo è in marmo lunense venato; le divinità sono raffigurate sedute su di un unico sedile cerimoniale con gli attributi canonici: Giove al centro con lo scettro nella sinistra mancante ed il fascio di fulmini nella mano destra; alla sua sinistra è Giunone diademata e velata con scettro nella sinistra e patera nella destra mancante. Alla sua destra è Minerva con elmo corinzio, del tutto simile a Giunone cui si contrappone simmetricamente, che regge con la sinistra l'asta disposta trasversalmente, mentre il braccio destro mancante doveva essere sollevato a sostenere l'elmo nello stesso gesto che vediamo nei medaglioni degli Antonini e nel frontone del tempio di Giove Capitolino che appare sullo sfondo del notissimo rilievo co Marco Aurelio che sacrifica, murato nel primo ripiano di Palazzo dei Conservatori (176 d.C.).
[TRIADE]Tre piccole Vittorie alate acefale (la meglio conservata è quella dietro la testa di Giunone) incoronano le divinità, Giove con una corona di quercia, Giunone di petali di rosa, Minerva di alloro. Ai loro piedi gli animali tradizionalmente sacri: l'aquila, il pavone e la civetta.
La Triade Capitolina di Guidonia ha un grandissimo valore documentario, dal momento che allo stato attuale delle conoscenze, è l'unica testimonianza della Triade che ci sia pervenuta nella quasi totale interezza, costituendo pertanto una fonte preziosa per la ricostruzione del prototipo.
Il gruppo, però più che una copia della Triade che era venerata nel tempio di Giove Capitolino a Roma, è da considerare una variante di buon mestiere, che considerazioni di ordine stilistico inducono a collocare nel periodo tardo antoniniano.
La differenza consiste soprattutto nello spirito che ha ispirato il suo autore, che ha assegnato lo stesso ruolo sul piano devozionale alle tre divinità, sottolineandolo con l'impiego di un unico sedile; questo accorgimento contribuisce a creare un'atmosfera domestica da insiema di famiglia borghese, che non ha riscontro nelle altre copie della Triade provenienti dall'area municipale o provinciale.
Un unico prototipo ha costituito il modello della Triade di Guidonia e di quella che appare nei medaglioni degli Antonini (da Traiano a Marco Aurelio e Lucio Vero), dove Minerva è raffigurata nello stesso gesto di sollevare la visiera dell'elmo, ma dove le tre divinità siedono ancora su troni separati.


Dott.ssa Anna Maria Reggiani
Soprintendente archeologo per il Lazio





Alcune considerazioni sulla Triade Capitolina dell’Inviolata.

 I Romani ebbero una pas­sione sfrenata per la scul­tura, al punto di spen­dere cifre da capogiro, anche superiori a quelle miliardarie che sembra fossero disponibili per la Triade dell'In­violata.

 Plinio il Vecchio, nella sua "Historia Naturalis" raccon­ta che Lucio Lucullo pagò un milione di sesterzi (3 o 4 miliardi) per una statua della Felicitas e che Zenodoro realizzò in Gallia una statua colossale di Mercu­rio per 40 milioni di sesterzi (dai 120 ai 160 miliardi di lire). Si pensi che lo stipendiò base di un legionario era di 100 sester­zi al mese.

 A partire dal II sec. a.C., quan­do fu completata la conquista del Mediterraneo orientale, giun­sero a Roma e in Italia migliaia di statue razziate in Grecia e nei regni ellenistici e poi ancora mi­lioni di tonnellate di marmo pre­giato per costruzioni e decora­zioni. In un periodo in cui il costo di qualsiasi merce dupli­cava ogni cento chilometri di viaggio, per i Romani non era un problema importare marmo dal Portogallo, dall'Africa o dal­le regioni più lontane dell'Asia. Vale a dire migliaia di chilome­tri. Molto probabilmente in pie­na età imperiale il. popolo del­le statue a Roma era più nu­meroso di quello degli uomini.

 Tuttavia occorre dire subito che se sì considera l'arte roma­na nel suo complesso la scultu­ra ne rappresenta una parte as­solutamente non paragonabile a quella avuta dall'architettura, ove i Romani mostrarono un ge­nio creativo originale e gran­dioso.

 Qualche studioso nel passato ha addirittura tentato di negare che ci sia stato uno sviluppo ar­tistico nella scultura romana. 



 


 


  Na­turalmente non è vero e tuttavia simili argomentazioni sì pos­sono comprendere se si considera come   avvenne l'approccio dei Romani con la scultura Gre­ca: in pochissimi anni giunse a Roma indistintamente e con­temporaneamente una quantità enorme di statue dell'epoca arcaica come di quella classi­ca, fino alla contemporanea pro­duzione tardo-ellenistica. Si pen­si quindi all'atteggiamento di una persona digiuna di storia dell'ar­te che entri da sola nei Musei Vaticani e trovi tutte le opere esposte alla rinfusa e prive dì  indicazioni cronologiche.

 Ne derivò, anche nella scultura, quello che è per molti ver­si un tratto caratteristico del Ro­mani: l'eclettismo. In sostanza essi apprezzarono, copiarono ed  adattarono quegli aspetti che erano più confacenti al loro carattere ed alle loro esigenze.

 Così troviamo una originalità romana per lo più nella scultura celebrativa (vedi l'Ara Pacis o la Colonna Traìana) e nella ri­trattistica, esattamente la stessa cosa che accadde per le mo­nete. Chiunque si intenda di numi­smatica sa benissimo che le mo­nete greche sono eccellenti per i! valore artistico, mentre quel­le romane sono di gran lunga più interessanti per il verismo dei ritratti, la ricchezza delle epi­grafi, la straordinaria varietà dei rovesci: una minuziosa enciclo­pedia di tutti gli aspetti della vi­ta politica, sociale, militare, re­ligiosa ed economica, della geo­grafia e dei monumenti e, in so­stanza, un formidabile veicolo di propaganda politica e cultu­rale.

 Questo ci porta ad una con­siderazione ovvia per gli ad­detti ai lavori: gli antichi e spe­cialmente ì Romani non posse­devano l'idea de «l'arte per l'ar­te», che è solo moderna..  Per lo­ro una scultura era importante più per il valore del contenuto o per la funzione decorativa che per i canoni assoluti della bellezza artistica.. Cicerone, ad. esempio, scrive ad Attico di comprargli in Grecia della statue adatte ad un Ginnasio e in un'altra occa­sione sì lamenta con un amico per l'avvenuto acquisto dì Mè­nadi, che non sapeva dove met­tere.

 A Pompei ed Ercolano mol­te sculture sono state ritrovate nella loro collocazione origina­le. Ebbene si può vedere che non era la qualità artistica a de­terminarne la collocazione, ma soltanto il contenuto. Capitava quindi che venissero accostate sculture eccellenti a copie scadenti, solo per l'affi­nità del tema trattato.



 


 


 Nella scultura sacra naturalmente non c'è la sola funzione decorativa. Eppure proprio in essa i Romani si appiattirono maggiormente sull'arte Greca, sia dal punto di vista del contenuto (sincretismo) sia dello stile (classicismo).
Ad ogni modo il risultato finale, quello che per noi oggi è la qua­lità artistica ed espressiva dell'ope­ra, dipendeva sempre e soltanto dalla personalità e dalla ca­pacità di spesa del committen­te.     

 Chi disponeva di pochi soldi doveva accontentarsi, per il suo altare, la sua casa o la sua tom­ba, di sculture che trovava già pronte nelle fabbriche in gran numero di copie tirate giù affrettatamente e facilmente adat­tabili, con piccoli ritocchi del momento, alla sua bisogna. Chi invece disponeva di molto dena­ro contattava la migliore offici­na, si sceglieva l'artista o gli artisti migliori (spesso il lavoro era di gruppo), esponeva la sua richiesta, probabilmente paga­va un congruo anticipo e, a la­voro finito, un conto salatissimo per un'opera generalmente di buona qualità.

 E questo anche nel III secolo inoltrato, come dimostrano ope­re di altissimo livello sicuramente databili quali il sarcofago cosid­detto di Ostiliano della ex Col­lezione Ludovisi (251 d.C.) o l'ancor più tardo ritratto di Gallieno o la nostra Triade che sicu­ramente è stata commissionata per un'occasione ed uno scopo ben precisi dal Dominus dell'In­violata.

 Chiarisco di non avere l'in­tenzione e nemmeno la capa­cità dì fare qui un trattato sulla scultura romana. Il mio scopo è invece quello di arrivare ad una ipotesi di lavoro per far emer­gere la figura del Committente della Triade, cercando di in­quadrare il contesto storico in cui l'opera fu voluta e realizza­ta.

 Prima di passare al commit­tente, è necessario fare un cen­no alla figura dell'artista.. Pro­babilmente non sapremo mai il suo nome. Abbiamo visto qua­li spese folli fossero capaci di so­stenere i Romani per le statue. Saremmo allora tentati di cre­dere che uguale considerazione fosse riservata a coloro che le scolpivano. Invece generalmente non è cosi. Gli storici ed i let­terati romani hanno citato spes­so i grandi scultori greci, men­tre citano pochissimo gli scul­tori che hanno operato a Ro­ma, molti dei quali erano sicu­ramente greci.

 Nessuno ci ha tramandato il nome di chi ha scolpito l'Ara Pacis di Augusto o la Colonna Traiana o di chi ha realizzato i! Mar­co Aurelio ed è un vero pecca­to perché queste opere appar­tengono a pieno titolo alla Sto­ria dell'arte universale. Il fatto è che la scultura veniva conside­rata un lavoro manuale e quin­di poco nobile. Di conseguen­za lo scultore per i romani era poco più che un semplice arti­giano. Così, al solito, si dava il massimo risalto alla figura del committente ed al soggetto trat­tato, mentre il nome dello scul­tore era destinato all'oblio.

 Gli scultori erano invece consapevoli del loro valore e qualche, volta apponevano timidamente la lo­ro firma sull'opera.. I committenti, d'altro canto non gradivano nemmeno questo e nel II sec. d.C. fu persino proi­bito di menzionare sulle statue nomi diversi da quello dell'imperatore o di chi avesse finanziato l'opera. A volte però lo scultore ha la sua rivincita. quan­do, committente di se stesso scolpisce il proprio monumento funebre, si rap­presenta intento all'opra e parla del suo lavoro con evidente orgoglio.

 Questo preambolo è necessario per introdurre alcune considerazioni di ca­rattere storico e numismatico che a mio avviso potrebbero avvalorare un'ipo­tesi di individuazione: dell'occasione storica in cui venne realizzata la Tria­de e quindi della persona o della fa­miglia che la commissionò. Il fatto è che dal giorno in cui sono  stato invitato alla conferenza stampa  sulla Triade ritrovata non ho fatto che  pensare ad essa, o meglio, alla persona, al Dominus, che quasi diciotto secoli or sono la fece scolpire, la portò, nella sua splendida villa e le celebrò  i sacrifici, da solo o al cospetto di fami­liari, servi e clientes, molti dei quali in realtà potevano già essere Cristiani. Naturalmente queste osservazioni po­trebbero non essere significative ma io spero che esse contribuiscano in ogni caso a tener viva l'attenzione sul problema, serio, del nostro patrimonio archeologico.

 Non mi dilungherò sull'opera che è stata descritta da molti. Il tempo e la terra le hanno dato una patina bellissima ed un fascino incredibile. Il professor Federico Zeri l'ha autorevol­mente datata alla I metà del III secolod.C. Il fatto che Giove; Giunone e Mi­nerva siano seduti su di un unico trono già esclude che possa trattarsi di una fedele riproduzione della Triade del Tempio di Giove sul Campidoglio ove ciascuna divinità aveva la sua cel­la ed il suo scranno.

 Questa differenza, sostanziale, già rilevata da Umberto Milizia proprio su Hinterland può essere accompagnata da altre osservazioni. Tutte le raffigurazioni note della Triade, sia stante che seduta, sembrano più so­brie: non vi sono gli uccelli sacri e nemmeno gli ulteriori elementi simbolici sulla testa degli dei (al momento poco  leggibili).

 Un particolare curioso di questa Tria­de sono le calzature di Minerva: sem­brano strane pantofole, mentre Giove e Giunone hanno i classici calzari. Dall'insieme, pur nell'impostazione classicistica, traspira un gusto vaga­mente orientale.

 È stato detto, a ragione, che i! com­mittente di questa opera, certamente non decorativa, doveva essere un per­sonaggio di altissimo rango, sicura­mente un uomo con funzioni pubbli­che, forse membro di una famiglia im­periale. Sarà allora utile rifarsi al pe­riodo storico in cui l'opera fu realizza­ta, di sicuro la prima metà del III secolo d.C.

 Nella I metà del III seco­lo cresceva inarrestabile la religione cristiana, che però solo più tardi riuscì a soppiantare un altro importante cul­to, quello, diffusissimo, del dio Sole e di Mitra e giova osservare che il Cri­stianesimo vinse definitivamente solo quando Gesù Cristo assunse per mol­ti versi i connotati sia di Mitra che del Dio Sole, compresa la celebrazione del Natale. Ma questo meriterebbe una trattazione a parte e ci porterebbe lon­tano.

 E i nostri antichi dei dell'Olimpo ro­mano, allora, chi li venerava più nel III secolo?

 Chi spese tanti sesterzi per far scolpire e portare all'Inviolata uri grup­po marmoreo di tal genere? Natural­mente una persona legata al potere, sacro e profano, che la Triade rappresentava, ma non necessariamen­te un membro delle antiche famiglie patrizie. Sappiamo bene che in piena decadenza dell'Impero romano quelli che ne subivano di più il fascino e le tradizioni erano coloro che o ne sta­vano fuori o che da poco ne erano en­trati a far parte.

 Basti pensare a ciò che scrisse su Ro­ma Sidonio Apollinare, quando ormai Roma era in piena decadenza o agli straordinari festeggiamenti che Marco Giulio Filippo organizzò per celebrare i mille anni della fondazione dì Roma, nell'anno del Signore 248.



 Filippo era nativo dell'Arabia: Edward Gibbon, che attinge alla Historìa Au­gusta e a Porfirio, nella sua opera“History of the declin an fall of the Roman Empire” scrive che in gioventù era stato un predone. Fece una car­riera incredibile, fino a diventare Pre­fetto del Pretorio sotto Gordiano III. Morto Gordiano fu acclamato impe­ratore dai soldati nel marzo del 244.
Il 21 aprile del 248 Filippo inaugurò a Roma i ludi secolari, che prima di lui erano stati celebrati solo da Augusto, Claudio, Domiziano e Settimio Seve­ro e che coincidevano con i mille an­ni dell'Urbe. Gli spettacoli ed i riti furono di una magnificenza abbaglian­te: gli antichi dei vennero propiziati erivissero in tutto il foro potente splen­dore.

 L'impero era ancora grande e forse tutti si illusero che niente fosse cam­biato. Ma la potenza e Io spirito ro­mano non c'erano più. Filippo non era né Augusto né Traiano e gli antichi dei erano forse stanchi, dopo mille anni. Ecco - mi si perdoni la presunzione - ma io assocerei la Triade dell'Inviola­ta proprio alla figura di Marco Giulio Filippo detto l'Arabo o alla sua famiglia e dirò il perché:

 1) la tecnica e lo stile coincidono con l'epoca ed anche se molti propongo­no una datazione più antica, tra i! 200 ed il 225; non dimentichiamo che si tratta di un'opera di carattere sacro sulla quale classicismo e tradizione deb­bono aver influito moltissimo;

 2) l'abbondanza di elementi simboli­ci (e le scarpe di Minerva) fanno pen­sare all'Oriente e Filippo era Arabo;

 3) dicevo del fascino di Roma sugli stranieri e i parvenus e Filippo era en­trambe le cose;

 4) la Triade come religione dei po­tenti di Stato e Filippo era l'Imperato­re, l'uomo più potente;

 5) i «Ludi saeculares» del Millenario celebrati per esaltare e far rivivere le antiche tradizioni e gli antichi dei. Qua­le migliore occasione per commissio­nare la Triade da parte di Filippo o di qualcuno a lui vicinissimo?

 6) la numismatica: dopo Settimio Se­vero soltanto la famiglia di Filippo l'Ara­bo ha contemporaneamente, nelle emissioni monetarie, la raffigurazione di Giove, Giunone e Minerva, anche se mai insieme. Tra Severo e Filippo nessun Imperatore ricorda Minerva nel­le monete e dopo Filippo bisogna ar­rivare a Gallieno per ritrovarla anco­ra. Inoltre, se la memoria non ingan­na, Filippo l'Arabo è l'ultimo impera­tore che sulle monete ha il titolo di Pon­tefice Massimo, carica che notoria­mente rappresentava la congiunzione tra potere religioso e potere tempo­rale;

 7) il luogo. Francesco Cerasoli, sto­rico locale, nella sua opera Ricerche storiche sul Comune di Montecelio (Roma, 1890), scrive che nel territo­rio di Montecelio si trovano i ruderi dì una villa che fu di Filippo Arabo. Per la verità la situa presso la Selva e cioè verso Palombara Sabina. Oltre a ciò nel 1890 l'Inviolata non era co­mune di Montecelio. Il Cerasoli non cita la sua fonte ed io questa notizia non l'ho trovata da nessuna altra par­te. Però non dimentichiamo che l'In­violata si trova lungo l'antica strada per Montecelio.

 In conclusione vorrei dire che natu­ralmente considero queste riflessioni come un'ipotesi, che personalmente sembra affascinante, ma nulla più. Ho presentato degli indizi ma ora ci vogliono i ri­scontri. Confido molto negli scavi che la Soprintendenza farà all'Inviolata. Mi piace pensare che la dottoressa Anna Maria Reggiani oltre che graziosa e preparata sia anche fortunata.

 E quale maggior fortuna per l'ar­cheologia e per la storia se dal sacello dell'Inviolata tornasse alla luce un' epigrafe dedicatoria della Triade? E ma­gari quel nome... MARCVS  IVLIVS PHILIPPVS…


Caio

 NdA: questo articolo è stato pubblicato sul settimanale “Hinterland” nel 1994. Alcuni anni dopo, nel corso degli scavi effettuati dalla Soprintendenza Archeologica del Lazio sul sito del ritrovamento della “Triade Capitolina dell’Inviolata” è stata rinvenuta una testa marmorea…di Filippo, figlio di Marco Giulio Filippo. Quando si dicono le coincidenze…

 



 



 


 


 


 



 


 


 


 



 


 


 


 



 


 


 


 



 


 


 


 



 


 


 


 



 


 


 


 



 


 


 


 



 


 


 


 



 


 


 


 



 


 


 


 



 


 


 


 



 


 


 


 



 


 


 


 



 


 


 


 



 


 


 


 



 


 


 


 



 


 


 


 



 


 


 


 



 


 


 


  


 


 

 



 

 



 

 



 

 



 

 



 

 



 

 



 

 



 

 



 

 



 

 



 

 



 

 



 

 



 

 


 


 



 



 


 


 


 


 



 



 


 


 


 


 



 



 


 


 


 


 





 



 


 


 


 


 


lunedì 26 dicembre 2005

E' stata una giornata strana, oggi. Ho fatto quel che volevo fare da tanto tempo: dormire 12 ore di fila, un sonno senza sogni che un po' mi ha ritemprato, un po' mi ha lasciato addosso una sensazione indefinibile...quasi di sospensione, chissà. Il tempo è brutto, piove, fa freddo, il tempo ideale per starsene dentro a leggere un buon libro. Però voglio approfittare di questo mio spazio per ringraziare tutti quelli che mi hanno fatto gli auguri, ad alcuni dei quali non ho nemmeno risposto. Lo faccio qui, meglio tardi che mai, no? Quest'anno per me è volato, più in fretta di qualsiasi altro della mia vita, tante sono state le cose che mi sono accadute, tanti i problemi che ho dovuto affrontare e, per fortuna, ho potuto risolvere. Inevitabilmente qualcosa, qualcuno, ho trascurato e di questo mi scuso, pur non potendo promettere nulla per l'avvenire. L'avvenire...è in mano al destino, chissà. Da gennaio ci saranno cambiamenti, anche nel lavoro. Torno ad occuparmi di scuole e di cultura e questo mi piace, è stato il mio lavoro per 20 anni fino al 2002 ma anche di commercio, che è materia quasi del tutto nuova per me e mi impegnerà parecchio, almeno per i primi tempi. E poi ci sono i servizi sociali: nessuno li vuole e quindi, volente o nolente, me li devo tenere, eh. Ed è il 35° anno di lavoro...mi pare ieri, quel 23 settembre del 71, quando cominciai, così, per pagarmi gli studi. Un tavolo in un angolo dell'archivio, nei sotterranei, senza luce del sole, un timbro di gomma, un tampone d'inchiostro e 11.000 fogli del Censimento da timbrare, ogni foglio 5 timbri hehehe, altro che Fantozzi;)


vabbeh, insomma non lasciamoci prendere dai ricordi, il bello, deve ancora venire:)



AUGURI, CAIO

venerdì 23 dicembre 2005

Amici che passate per questo sito


conosciuti o sconosciuti


vi rivolgo un saluto


ed un augurio:


siate felici.


Caio


 

venerdì 16 dicembre 2005


Gordiano III detto anche Il Pio


Aureo


Non è facile ricordarsi di questo imperatore: regnò poco, nella prima metà del III sec. d.C. e in fondo non compì nulla di memorabile. Ai collezionisti di monete romane, però, è noto per la grande quantità di monete sue che vengono rinvenute. Pare quasi che la sua unica attività fosse stata quella di emettere moneta;) Rarissime invece sono le monete della moglie, che peraltro ha un nome ossimoroso: Furia Sabinia Tranquilina. Come facesse una a chiamarsi allo stesso tempo Furia e Tranquillina...non si sa. Come quasi tutti gli imperatori del III sec. Gordiano fu assassinato e la sua morte spianò la strada all'ascesa al trono di  Marco GiulioFilippo, detto anche l'arabo, perché era figlio di uno sceicco del sud dell'Arabia, Giulio Marino. Ovviamente anche Filippo fu assassinato ma fece in tempo a celebrare i mille anni di Roma, nel 247 d.C.....

giovedì 15 dicembre 2005

Andrea Mulas, Il Cile di Allende e la politica italiana: il compromesso storico. Manni editore



 



Recensione, pubblicata in Annali della Associazione Nomentana di Storia ed Archeologia anno 2005- XI



Giove, sotto forma di toro, rapisce Europa


Montecelio, Antiquarium comunale, mosaico


da villa romana in via Pantano


http://www.associazionenomentana.it/



 




 



Andrea Mulas è un giovane latinoamericanista dell’Università degli Studi di Camerino che si è laureato con una tesi su Il Cile di Allende e la politica italiana: il compromesso storico. L’eccellente ricerca, vincitrice della Borsa di studio bandita dalla Fondazione Istituto Gramsci di Roma è fondata, in parte, sugli archivi inediti della Fondazione Basso, della Bertrand Russel Peace Foundation e su numerose testimonianze dei collaboratori di Allende e di Berlinguer. Il lavoro -che Mulas ha continuato ad approfondire- analizza l’esperienza cilena della transizione al socialismo della Unidad Popular del Presidente Salvador Allende (1970-1973) che, con i suoi meriti e limiti, rappresenta un aspetto fondamentale per la comprensione della strategia berlingueriana del “compromesso storico”, nodo centrale intorno al quale si sviluppò tutta la complessa politica italiana degli anni 1973-1984. Si tratta di un’analisi comparata che permette di cogliere delle chiavi interpretative, riferirle alla realtà politica italiana e capirne le eventuali analogie o divergenze con riferimento al contesto storico-politico nazionale ed internazionale di allora caratterizzato sia dalla cosiddetta “guerra fredda” che dagli effetti drammatici della Rivoluzione cubana in America Latina.

 



Ed è proprio in questo particolare momento storico che assume rilevanza la “transizione al socialismo” del governo di sinistra di Allende, processo che si distingueva radicalmente dall’esperienza di Fidel Castro e Che Guevara sia per le modalità di conquista del potere (democratico in Cile, militare a Cuba), sia per il successivo esercizio dello stesso, ed è per questi motivi che Kissinger temeva un “effetto Cile” su tutto il subcontinente che avrebbe destabilizzato la regione più di quanto avesse fatto la “mitica” esperienza cubana.

 



La transición dell’Unidad Popular, divisa al suo interno tra il moderatismo politico del Partido Comunista e l’estremismo rivoluzionario del Partido Socialista e dei partiti dell’estrema sinistra, fra i quali il Movimiento de Izquierda Revolucionaria, rappresentava un progetto di ampia portata che comprendeva tanto l’aspetto istituzionale quanto economico, tanto sociale quanto culturale. I punti cardini erano la nazionalizzazione delle miniere di rame e salnitro di cui l’80% della produzione apparteneva alle multinazionali straniere (perlopiù statunitensi), la creazione di tre Aree economiche: sociale, mista e privata, nelle quali comprendere le industrie del paese, la rottura del sistema latifondista a vantaggio delle famiglie più povere, insomma la costruzione di un avanzato Stato sociale in grado di tutelare gli interessi della collettività.

 



Su tutte emerge la riforma costituzionale della struttura politico-istituzionale, il cui progetto (Un Estado democrático y soberano. Mi propuesta a los chilenos, pubblicato postumo perché introvabile per due decenni e purtroppo incompleto) non venne mai presentato al Congresso in quanto sopravvenne il golpe che fu anticipato di qualche giorno dagli ufficiali traditori proprio per evitare che il Presidente potesse convincere alcuni settori delle Forze Armate a non intervenire più. In estrema sintesi, Allende proponeva il perseguimento di un quanto mai originale modello politico-economico, che rappresentava un quid per la tradizione (e la teoria) socialista internazionale: “il Cile -disse il Presidente nel suo primo messaggio al Congresso- è oggi la prima nazione della terra chiamata a conformare il secondo modello di transizione verso la società socialista”, differenziandosi da quello basato sulla “dittatura del proletariato” e sulla “via armata”. Si apprestava a compiere, assieme alla coalizione della Unidad Popular, un’opera di avanzamento e di perfezionamento, tanto nella pratica quanto nella teoria, delle elaborazioni del socialismo latinoamericano, che era stato così originalmente formulato, in contrapposizione alla settaria visione Kominternista, per la prima volta nella storia del Sudamerica degli anni Trenta dal peruviano José Carlos Mariátegui e, successivamente nel caso del Cile, dal socialista Eugenio González.

 



La peculiarità della transición, come emerge puntualmente dall’analisi di Mulas, si  basava sul rigoroso rispetto della legalità e delle norme costituzionali che mai vennero violate nell’arco dei tre anni dal governo Allende, come invece fece l’opposizione composta dalla corrente reazionaria-golpista della Democracia Cristiana e dal Partido Nacional, che immediatamente pochi giorni dopo la vittoria di Allende (4 settembre 1970) si mobilitarono in strettissima collaborazione con la CIA e con l’amministrazione Nixon per evitare -soprattutto illegalmente- l’insediamento del neo-presidente. Questa ingerenza nelle questioni politiche cilene (e non solo) caratterizzerà -come documenta la ricerca- tutto l’arco del triennio, contribuendo ad inasprire lo scontro politico-ideologico per mezzo di continui finanziamenti illeciti sia alle forze politiche dell’opposizione che ai mass-media, sia alle multinazionali che ai diversi gruppi terroristi, fino al golpe dell’11 settembre 1973 che aprì, contrariamente a quanto credevano i democristiani cileni, ad una delle dittature più repressive e crudeli dell’America Latina.     

 



In Italia, dove una parte della Sinistra era da sempre attenta ai peculiari processi politici latinoamericani grazie anche all’impegno politico-intellettuale di Lelio Basso (che la ricerca di Mulas ha il merito di far emergere per la prima volta), Berlinguer prende spunto dalla drammatica esperienza cilena per formulare la strategia del “compromesso storico”, tesa ad evitare uno “scontro frontale” tra conservatori e moderati che assumesse forme tali da favorire una saldatura del complesso delle forze “che si situano dal centro all’estrema destra”, cioè il caso cileno. Come descrive Mulas, tutta la politica berlingueriana, nel solco della continuità con Togliatti, non fu più caratterizzata dalla giustapposizione tra una peculiare “via nazionale” e l’ancoraggio internazionale ai principi e alle appartenenze tradizionali, ma dalla ricomposizione di un ruolo in grado di combinare l’elemento nazionale e quello internazionale, modificando soprattutto il secondo. Berlinguer non prese soltanto atto della collocazione dei comunisti italiani nel mondo, ma si pose il problema di offrire una risposta dei comunisti alla crisi e alle emergenze dell’Italia degli anni Settanta, integrando il quadro politico della democrazia italiana, quale aspetto di un cambiamento più generale della politica europea dopo la fase acuta della “guerra fredda”.

 



In questo senso Mulas interpreta il distante avvicinamento con Aldo Moro che, consapevole degli effetti internazionali di un possibile coinvolgimento del PCI al governo, cercò nelle “convergenze parallele” di segnare una possibile (non ben delineata) strada comune con Berlinguer. Il segretario comunista, proprio per evitare la polarizzazione cilena, lavorava per una “alternativa democratica” la cui realizzazione subì una battuta d’arresto prima con l’omicidio del Presidente Moro e poi con la politica anti-comunista di Craxi che si alleò con la corrente anti-morotea della Democrazia Cristiana.

 



Offrendo un quadro esauriente delle forze politiche all’interno della conventio ad excludendum, Mulas si sofferma sulla valutazione del sistema geo-politico bipolare e i relativi condizionamenti nell’applicazione del progetto berlingueriano. L’analisi dell’Autore, superando il presunto problema della “doppia lealtà”, si basa sull’idea che Berlinguer rimase fedele al principio togliattiano della “unità nella diversità”, nella convinzione che provocare una rottura del movimento comunista internazionale avrebbe compromesso le chance in possesso dei comunisti italiani al fine di esercitare un’influenza politica e culturale in favore di un cambiamento di altri partiti, compreso quello sovietico, senza per questo migliorarne le posizioni nella società nazionale. Secondo questa interpretazione Berlinguer, fino alla fine, fu convinto che l’idea di una rottura con Mosca avrebbe costituito un passo falso, indebolendo il ruolo e l’identità del comunismo italiano.      

 



Mulas sottolinea che, conosciuti questi limiti, il PCI cercò di ritagliarsi un ruolo di maggiore autonomia dentro il movimento comunista internazionale, consapevole che “scegliere la via democratica non vuol dire, dunque, cullarsi nell’illusione di un’evoluzione piana, senza scosse della società dal capitalismo al socialismo”, e da questo punto di vista sono stati cruciali due episodi: l’intervento sovietico a Praga (1968) e il colpo di Stato in Cile (1973). Gli avvenimenti della Cecoslovacchia dimostrarono infatti l’illusorietà della speranza di un’evoluzione democratica dei paesi comunisti e contemporaneamente la scarsa propensione dell’Occidente ad incoraggiare e sostenere processi di questo tipo. Il Cile d’altro canto dimostrò in modo drammatico come, anche all’interno del campo occidentale, il cambiamento politico incontrasse un confine oltre il quale, nell’epoca della guerra fredda non era lecito spingersi, e tutta la politica del “compromesso storico” costituisce una dimostrazione di come la consapevolezza dell’invalicabilità di tale limite sia profondamente introiettata dal gruppo dirigente del PCI.

 



L’interessantissima ricerca si conclude evidenziando che paradossalmente, per i casi della storia, la strategia del “compromesso storico” che Berlinguer aveva ideato per l’Italia, fu invece compiuta in Cile con la costituzione della Concertación de Partidos por la Democracia, coalizione che riuniva diciassette partiti tra cui Democrazia Cristiana e Partito Socialista, e che sconfisse al referendum del 1988 il dittatore Pinochet ed ancora oggi continua a governare il paese.

 


mercoledì 14 dicembre 2005

omaggio a Duecento


Trascrivo qui sotto uno scritto del mio amico Duecento, me lo ha mandato giorni fa, mi è piaciuto e gli ho chiesto se potevo pubblicarlo qui.


Appropo', 200 ha fatto una chat, in cui ci siamo ritrovati, un po' di amici della diaspora di Clarence. Se vi va, visitatela, ecco il link


http://clavence.altervista.org/chat/index.php


Kurt, Albert e il barbiere

 




 




 



Negli anni 30 la democrazia nel vecchio continente era diventata un giocattolino rotto di un bambino schizofrenico. Si chiamava Adolfo.

 



Gli uomini di scienza teutonici, ma non solo, che ne ebbero possibilità emigrarono negli Stati Uniti.

 



Fu il caso di tali Kurt Gödel e Alberto UnaPietra, volgarmente noto come Albert Einstein, che trovarono asilo e lavoro presso l'Università di Princeton dove insegnavano al Dipartimento di Studi Avanzati.

 




 



Ogni giorno, al termine delle lezioni, il piccoletto trentenne Kurt saliva nello studiolo dello scompigliato ultracinquantenne Albert per tornare insieme alla casa di quest'ultimo. Durante il tragitto i due discutevano e scherzavano di filosofia , logica e fisica confrontando le proprie esperienze: Albert era molto interessato alle teorie di Kurt che annaspava cercando di spiegare la matematica con lo stesso linguaggio: la matematica e, calandole nel quotidiano, gli faceva domande tipo: "se atesso attrafersare un ciclista su strisce petonali noi petoni potere attraversare senza cenerare un paratosso?" e l'irascibile Kurt, dopo aver risposto nervosamente, faceva domande sulla relatività che, pur avendola studiata a fondo, gli lasciava alcuni dubbi esistenziali tipo: "se io preparare i knodeln fritti e poi fare roteare furiosamente alla felocità della luce topo quanto tempo ritornare crudi?".

 




 



Tutti i giorni, nel loro tragitto, passavano davanti all'oscura e squallida botteghina del barbiere Barrett sulla cui vetrina era esposta un'insegna ingiallita e consunta recante il seguente testo: "Barrett rade tutti e soltanto gli uomini che non vogliono radersi da se". Tante e tante volte la strana coppia era passata davanti a quella bottega senza notare l'insegna, tant'erano presi nei loro discorsi.

 




 



Un giorno, il basso e lo spilungone stavano discutendo così animatamente che, per chiarire meglio ognuno la propria posizione, si fermarono. Uno di fronte all'altro. Gesticolavano ed erano rossi in volto. Kurt era rivolto verso la strada e Albert verso il palazzo, si trovavano esattamente di fronte alla vetrina del barbiere Barrett.

 



Albert tacque all'improvviso e fece segno di chetarsi a Kurt, poi lesse ad alta voce: "Barrett rate tutti e zoltanto gli uomini che non voghliono raterzi da se". Uhm - commentò subito dopo - cosa ne tice Kurt?

 




 



Kurt rifletté qualche istante ed escamò: "Povero Barrett - pausa pregna di commiserazione - chi rade il povero Barrett?".

 



Infatti Barrett non può radersi da solo: in tal caso non raderebbe solo gli uomini che non si radono da soli. Ma non può nemmeno farsi radere da un'altra persona: in tal caso non raderebbe tutti quelli che non si radono da soli, essendo lui uno di questi.

 




 



Kurt, sbiancando, ammutolì. No, non era rattristato per le sorti del povero Barrett, non era sorpreso dal suo volto liscio ma non glabro. Piuttosto nella sua mente s'era accesa una lucina, o forse s'era acceso un buio, un buio profondo che assorbe ogni luce, un buco nero che rappresenta la sintesi di anni di studi, di tautologie, di asserzioni, di deduzioni.

 



Il teorema di incompletezza. La sintesi.

 



Se cerco di spiegare una teoria matematica con i teoremi di quella teoria riesco a dimostrare un'infinità di teoremi non veri all'interno di quella teoria. Appartengono alla teoria perché li ho spiegati con strumenti interni alla teoria ma contemporaneamente non sono veri. Fu una delle scoperte più importanti del XX secolo con implicazioni enormi: Valeria Marini è un essere umano, ma gli esseri umani sono dotati di intelligenza. Lei è l'anello mancante, appartiene al genere umano pur non essendo dotata d'intelligenza.

 



La verità viene svuotata di quel significato che ha avuto per millenni: se una cosa è dimostrabile, non è detto che sia vera. Tremonti ha dimostrato che la finanziaria funziona: non è detto che sia vero.

 




 



E viiiiiiiiiiiiiiia! Catapultati tutti insieme in questo teomorfo ammasso pensante pulsante che è l'universo indecibibile dove la certezza è il dubbio e la verità è una piccola fragile crisalide smunta personale privata che folle folli di esseri sconnessi difendono ringhiando viiiiiiiiiiiiia.

 



Poveri, figli delle certezze andate non esiste. Non esiste più la verità ma solo piccoli o grandi o medi dubbi come le birre bionde o rosse o scure che siano come le donne sempre belle affascinanti misteriose viiiiiiiiiiia.

 




 



Gödel, il teorema dell'incompletezza e la teoria dell'indecibilità non mi hanno tolto una risorsa ma me ne hanno regalata una nuova. Il dubbio. E il mio essere piccolo più del nulla acquista senso perché non è più definitivo.

 




 




 



E Barrett? Kurt soffriva ogni volta che passava davanti a quella bottega, finché un giorno si decise ed entrò: "mi scuzi, sighnor Barrett, accanto a cvell'inzegna tovrebbe mettere una con scritto: Barrett essere esonerato dall'asserzione scritta zu altra insegna".

 



Barrett annuì col capo e, non appena Kurt scomparve dietro l'angolo dell'isolato, levò la sua consunta insegna.

 




 




 



Nota: il paradosso del barbiere fu in realtà formulato da Bertrand Russel nel 1918.


 

sabato 3 dicembre 2005

La mia passione di sempre, le monete antiche.


La pic della solitudine serena


Sola Beatitudo, Beata Solitudo


la pic della solitudine... un sorriso, Caio